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L’italia e la crisi

L’Italia, la crisi e le politiche keynesiane di Domenico Giacomantonio

A seguito della crisi del 1929, e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, tutti gli stati occidentali hanno attuato una politica economica che porta il nome di un grande economista liberale, John Maynard Keynes, professore all’Università di Cambridge. Tali politiche hanno aperto la strada ad un livello di benessere, per la popolazione, che a ben pensarci ha del miracoloso. Grazie ad essa i paesi dell’Europa occidentale hanno raggiunto un grande livello di sviluppo, sia per quanto riguarda le libertà personali e politiche, sia per quanto riguarda le condizioni di vita, ossia stipendi e salari, pensioni, istruzione, sanità gratuita, diritto alla casa, assicurazioni contro le malattie, infortuni e disoccupazione. Si trattava insomma di investimenti pubblici allo scopo di sostenere la domanda, i consumi e quindi l’offerta di lavoro.

Tutto ciò è stato favorito, dal 1944 al 1971, dagli accordi di Bretton Woods, che hanno limitato i movimenti speculativi di capitali, garantito la stabilità dei tassi di cambio e favorito gli scambi fra le economie più industrializzate, presentando così un capitalismo dal volto umano e senza eccessi.

Per la prima volta si è introdotto il suffragio universale di partecipazione del popolo alla cosa pubblica, giungendo attraverso i partiti alla nomina dei rappresentanti parlamentari.

Ed oggi? I partiti che hanno vissuto il miracolo economico sono spariti. Quelli progressisti e riformisti, di ispirazione keynesiana, sono in crisi e così anche il liberalismo. Ed il popolo?  Il tenore di vita dell’italiano medio è peggiorato e anche negli altri paesi, nonostante lo sviluppo, non è certo migliorato. La disuguaglianza è aumentata, i ricchi sono sempre più ricchi ed il resto della popolazione sempre più povera.

E le politiche keynesiane? Dagli anni ’80 sono state progressivamente abbandonate, facendo affidamento sul concetto che bastasse la crescita economica perché tutto si risolvesse positivamente (laissez-faire). Ma così non è stato. Tanti anni di lotte operaie sono state dimenticate ed il Partito Democratico ha trascurato gli esclusi, orientandosi a destra sui diritti sociali nell’ultima legislatura (con provvedimenti quali il “Jobs Act”, che ha tolto la possibilità di rivolgersi ad un giudice se si viene licenziati), ed a sinistra con le Unioni civili. Si parla in Italia di contratti a tempo indeterminato, quando di indeterminato hanno solo il titolo. Alle persone licenziate rimane solo un modesto compenso. Si dice che manca il lavoro, perché siamo in un sistema industriale 4.0, ma guarda caso questo succede in modo marcato solo da noi. Infatti i giovani italiani emigrano e trovano lavoro all’estero.

Il mondo attuale, con le nuove tecnologie, è inserito in un processo di globalizzazione a cui non possiamo sottrarci. La globalizzazione ha portato molte aziende a delocalizzarsi, in cerca di paesi dove la mano d’opera ha scarse tutele e bassi stipendi e salari: un mondo dove la logica economica prevale su quella sociale e dove i primi a pagarne le spese sono i ceti sociali più deboli. Un mondo dove parole come solidarietà e lotta alle diseguaglianze vanno sempre più perdendo il loro significato.

La delocalizzazione ha portato, in Italia, alla chiusura di molte aziende, di conseguenza il primo a soccombere è stato il lavoro. La necessità di inserire elementi di flessibilità, per arginare il calo di competitività del nostro paese, ha provocato lo sviluppo di nuovi tipi di contratti, con figure professionali scarsamente tutelate, soggette a un forte grado di instabilità lavorativa.

Da dove partire? Iniziamo dalla nostra Costituzione. Sul lavoro è fondata la nostra stessa Repubblica (art. 1 Cost.), ed esso è strettamente connesso alla dignità umana. Il lavoro dà a chi lo compie il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.).

 

Cominciamo con l’attivare il dettame costituzionale. Facciamo tutti gli sforzi per ridare dignità alla popolazione.

È attraverso il lavoro che la persona acquista visibilità e riconoscimento all’interno della comunità: il giovane diviene adulto, lo straniero visibile, l’adulto meritevole di rispetto.

Il lavoro non deve essere concepito solo come fenomeno economico e sociale, ma come fondamento della dignità della persona.

Quindi un passo fondamentale è ridare dignità alle persone e ridurre le diseguaglianze.

 

Altri passi da fare, come ai tempi di Keynes e di Bretton Woods, consistono nel rivalutare l’impegno dello Stato e porre delle regole alla speculazione finanziaria. Inoltre è necessario che la giustizia ricominci a funzionare ed il Parlamento ad assumere maggior rappresentatività. Infine… ci vuole un’Europa diversa, capace di essere un’unica entità, ed in campo economico competere con USA e Cina.

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